Wake me up when pandemic ends

È un post triste, oggi Tiffany non cazzeggia.

Se non vorrete leggermi nessuno può capirvi più di me. Schivo telegiornali, discussioni, notizie, persone, da mesi. Sono Ms Indifferenza: imperturbabile, impassibile, insensibile [basta che inizi per I, Insomma].

Vorrei andare in letargo, come ha suggerito la mia cara amica Jo. Invece vado avanti nella mia bolla come un automa, anestetizzata a ogni input esterno, consapevole dell’impossibilità di fare altrimenti.

Ma oggi uno tsunami mi ha travolto. La corrente non mi uccide, mi porta soltanto via lontano, assembla pezzi distanti nel tempo e nello spazio, si prende gioco di me.

E la cosa più naturale del mondo in questo momento per me è – sorpresa – tornare qui. Non riuscivo proprio a ricomparire veramente, ero come bloccata; fino ad ora. Ché se non scrivo subito impazzisco, sono un pericoloso fiume in piena.

Se n’è andata la terza persona a me cara in questo 2020 del piffero, se n’è andata in modo orrendo: prona, sola, inerme. Senza possibilità di saluto, di conforto, di umanità alcuna.

I figli da giù a riferire con gli occhi gonfi una notizia che non poteva essere data via filo; una donna affacciata al balcone, prigioniera nella sua stessa casa, stanca.

Io che non ho mai avuto un rapporto sereno con la morte [non so se dipenda dal fatto che i miei ci hanno sempre protette] sento il bisogno di affrontarla tutta ora, tutta insieme. Nella mia vita ho sempre fatto finta di niente, persino con i morti degli altri servo a poco o a nulla. Quando persi mio nonno – che per me era il sole – il pomeriggio stesso ero a studiare con un’amica e il giorno dopo splendente a dare gli esami di maturità.

É sempre stata una questione di sopravvivenza per me. Un pianto potevo concedermelo, ma poi dopo come se nulla fosse.

E non è un modo di dire, perché a volte io davvero ho cancellato le persone, pur di non dover dare spiegazioni. Tamquam non esset.

Se penso che al primo anno di università ho perso un amico nonché ex fidanzato e mio marito non lo sa, perché non gliel’ho mai raccontato.. [lo scoprirà ora forse] Lui che invece sputa fuori il dolore e l’umore, che ha perso il suo migliore amico lo stesso anno e continua a narrarne gli aneddoti come se l’avesse visto il giorno prima. Ridendo. Di lui, con lui.

Se penso che non sono mai andata sulla sua tomba [seppure l’abbia sognato un miliardo di volte], tranne una volta in cui ero con mia nonna e lo riconobbi da lontano per via di quella statua d’angelo che avevo sentito nei racconti degli altri e corsi fortissimo, arrivai col fiatone, guardai quella foto così piccola il tempo di due secondi e corsi di nuovo indietro. Dicendo che volevo controllare una cosa. Volevo. Controllare. Una. Cosa. Non so se è chiaro il mio disagio.

Ecco, io Tiffany incapace di elaborare il dolore, quest’anno ho perso tanto, ho perso troppo. E penso sia arrivato il momento di iniziare a buttare fuori, a versare un po’ di lacrime, a far cadere giù un po’ di muri. Ché funziona, ché fa bene. 

Che poi è il motivo della nascita di questo blog.

Credo che in fondo, in questo modo, le persone che non ci sono più continuino a vivere e, dall’altra parte, quelle che rimangono, vivano davvero. Senza anestetizzarsi.

Sì, è così. Già mi sento più leggera.

Ps. È appena arrivato il messaggio di una mia amica, è nato il suo secondo bambino.

Visto? Non è qualcosa di speciale e indomabile, la vita?

15 pensieri su “Wake me up when pandemic ends

  1. È meglio farsi coraggio e elaborare il lutto, doloroso, ma serve per andare avanti Anche il condividere è una vera medicina, “gli altri” volte, sono pronti ad ascoltare, ad accoglier per un attimo una parte del tuo dolore e un po’ ti guariscono con la loro empatia. Mi dispiace per quanto hai sofferto in passato e in questi terribili giorni, ti abbraccio forte.

    Piace a 1 persona

  2. Il fatto di non condividere con il mondo o con gli altri determinate parti della propria vita non è per forza di cose un qualcosa da vivere come se fosse universalmente riconosciuta una cosa negativa. Ci sono persone che interiorizzano e proteggono la propria storia, la propria vita, parte dell’origine dei sentimenti e perchè no, anche il proprio corpo in questo modo. Nella vita di ogni giorno la chiamano riservatezza, ma in un ottica dell’anima potrebbe chiamarsi custodia… ogni condivisione subisce (anche nelle migliori intenzioni) una forma di inquinamento, soggetti particolarmente sensibili alle vibrazioni emotive percepiscono queste forme di rumore e cercano di proteggere la purezza del loro ricordo, delle loro emozioni in questo modo, non credo siano necessarie spiegazioni o scuse, si tratta semplicemente di uno dei tanti modo di essere degli esseri umani… poi, ovviamente non so se questo possa essere il tuo caso, ho letto solo questo post, ma mi sono sentito di lasciare qua questo punto di vista… infondo per me il blog è questo..

    Piace a 1 persona

Scrivi una risposta a cazzeggiodatiffany Cancella risposta